Capitano, quando tornerem a baita? -

2022-10-14 21:27:28 By : Ms. Ada Chen

Capitano, quando tornerem a baita? di Marcello Cominetti

La Quota Gaspard è un’enorme montagna di roccia, alta 600 m dalla base alla cima, verticale e strapiombante su ogni lato. E’ una montagna che in realtà non esiste, se non quando l’incontrollato gioco delle nubi la fa risaltare rispetto a tutto ciò che la circonda. Accade di rado.

Nonostante le sue dimensioni è per lo più invisibile, perché la torre grigia e giallastra dalla forma sinuosa è addossata alla parete sud della Tofana di Rozes, presso Cortina d’Ampezzo nelle Dolomiti. Una delle pareti di roccia più grandi delle Alpi tutte. Tra la Tofana e la nostra montagna sfila verso l’alto una larga fessura ricolma di massi in bilico, un camino lo chiamano gli alpinisti, una porzione di parete dalle facce parallele, di quelle che si scalano con le gambe e le braccia in spaccata. Una tecnica antica, una volta l’unica per scalare, ricordata in qualche vecchia e suggestiva cartolina in bianco e nero.

Tra giugno e luglio del 1916 due Alpini si infilarono in quella fessura umida e friabile e la percorsero fino a raggiungerne il termine. Ci misero 16 giorni. Intorno a loro infuriava la Prima Guerra Mondiale. Erano certamente alpinisti di razza e scalando quella parete stavano facendo la guerra a modo loro. E’ difficile da credere ma è la verità.

Per un assurdo quanto naturale azzardo geologico la Quota Gaspard 2900 m, domina le vette aguzze del Castelletto 2656 m da Est e su quelle torri erano annidati i Kaiserjaeger austroungarici, i nemici, quelli che appostati saldamente sulle cime respingevano ogni attacco italiano nel tentativo di sfondare verso il Tirolo per andarsi a prendere non si sa che cosa.

Il Castelletto si chiama banalmente così perché ricorda il tipico edificio nelle sue forme torreggianti, gli austroungarici lo chiamavano Roccia del Terrore, Schreckenstein che richiama il nome di una rocca simile presso Aussig nell’allora Cecoslovacchia. Ma Gaspard, invece, cosa significa?

Quando gli alti comandi italici capirono che ogni assalto andava fatto dall’alto, pensarono che per espugnare il Castelletto, posizione nemica che dominava magistralmente uno degli accessi più ambiti alla conquista di nuovi territori, bisognasse occupare una piccola terrazza più in alto per passare da dominati a dominatori.

Nel 1901 l’impervia parete sud della Tofana di Rozes era stata salita da una cordata ampezzana composta da guide alpine appartenenti all’impero austroungarico che accompagnavano due nobildonne nipoti dell’imperatrice Sissi, le sorelle e baronesse Ilona e Rolanda von Ëotvos. Quell’estate del 1916 i Carabinieri a Cortina, occupata dagli italiani, convocarono una delle guide, Antonio Dimai (Tone Deo), e gli chiesero di guidare una pattuglia italiana lungo la via che aveva aperto. Dimai rifiutò e venne mandato al confino in Sicilia. Ora gli italiani dovevano fare da soli.

Il giovane tenente Ugo Ottolenghi, Conte di Vallepiana e appassionato alpinista prese l’incarico di scalare parte della parete sud della Tofana per raggiungere una posizione dominante sul Castelletto ma gli serviva un capocordata. Si ricordò allora della Guida valdostana di Valtournenche Joseph Gaspard, che la guerra, nella sua assurdità, aveva assegnato a un incarico d’ufficio, ritenendo il trentaseienne valdostano troppo vecchio per combattere (!). Gaspard l’alpinista del Cervino venne così richiamato ai piedi delle Tofane, per costituire con Vallepiana la cordata che avrebbe salito quello che oggi conserva la memoria dei due Alpini: il camino di Vallepiana alla Quota Gaspard.

Dopo la sua prima ascensione, quel minuscolo appicco vertiginoso venne attrezzato con centinaia di metri di scale a pioli, vennero costruiti baraccamenti su ogni pulpito e infissi lunghi e grossi chiodi per ancorare le scale su cui i Volontari Feltrini si inerpicavano per scambiarsi al combattimento e ai rifornimenti di quello che era diventato un fronte verticale lungo il quale i soldati si muovevano come le formiche, avanti e indietro, su e giù, sopravvivendo e morendo sfracellati da cadute sopra lo sguardo e il tiro nemico. Poco distante nelle viscere del Castelletto si scavava a suon di mine e martelli pneumatici. Il nemico era circondato ed aveva paura perché lo sapeva. La montagna pullulava di persone e attività faticose, puzzava di esplosivo e sudore. Dentro la montagna l’aria era irrespirabile per i gas delle mine e per la polvere calcarea che intasava i polmoni, si sudava perché il lavoro era durissimo: si dovevano frantumare rocce. Fuori, sulle scale del camino, si pativano il freddo e le scariche di sassi, il vuoto incombeva costantemente e di aria ce n’era fin troppa. Finché tutto ebbe un momentaneo epilogo all’alba dell’11 luglio del 1916.

Il re d’Italia Vittorio Emanuele III se ne stava con il suo Stato Maggiore di alti ufficiali in una baracca costruita appositamente sulla cima dell’Averau. Lo spettacolo stava per incominciare.

Poi tutto cessò e la notte parve non avere più alba (cit. Von Raschin)

Ciascun Alpino aveva il suo incarico. Dalla sera prima nessuno andava più avanti e indietro dalle postazioni dello Scudo, del Camino dei Cappelli, della Gran Guardia e del Camino di Vallepiana, oggi anche Camino degli Alpini. Fu una notte di silenzio, di attesa e di paura annodata in gola. I soldati veneti, sardi, toscani, friulani e dell’Italia tutta, capitati lassù a causa dei folli disegni medioevali del Generale Cadorna, trattenevano il fiato. Stava per accadere qualcosa di imponente e si capiva dal silenzio che regnava in quella notte estiva, tra stelle e ghiaioni, tra cuori pulsanti e fredde rocce verticali, tra pelle sporca e divise di lana grigioverde puzzolenti. Dalle posizioni austroungariche si viveva la stessa emozionante sensazione di catastrofe imminente. I perforatori avevano smesso di far vibrare la montagna da troppo tempo per aspettarsi qualcosa di buono. Il silenzio sfondava timpani e stomaco. E si aspettava. Gli uomini tremavano scossi da brividi tutti allo stesso modo, da una parte e dall’altra del confine, in quei momenti eterni.

Il Capitano austriaco Von Raschin seduto con i suoi su una bomba innescata, riporterà: “Alle 3 del mattino improvvisamente il fuoco nemico divenne tambureggiante come non mai. Fucili, mitraglie e artiglieria scatenavano una potenza di fuoco preparatoria, annunciatrice del crack che di lì a poco sconvolse la vita, rovesciò le montagne e incendiò sguardi e corpi. Il Castelletto era saltato in aria!” I detonatori azionati dal Tenente Malvezzi, agli ordini del Colonnello Tarditi, avevano fatto esplodere 30 tonnellate di ecrasite stipate nella galleria che terminava al centro della sella, oggi molto più ampia, tra il Castelletto e la Tofana. La montagna veniva modificata per sempre pur nelle sue gigantesche dimensioni e forme: l’uomo, prima e dopo, era impazzito. Ognuno aveva perso e aveva il magone in gola e il terrore negli occhi, ma bisognava fare la guerra. E le montagne stavano immobili come sempre. Al regno minerale la sola azione consentita è quella dell’erosione e quella della saggezza dello starsene lassù, esiliato dalle meschinità che l’uomo architetta costantemente a proprio danno.

Di questa vicenda sentii parlare quando avevo vent’anni durante il servizio militare negli Alpini, appunto. Poco dopo divenni guida alpina e mi trasferii a vivere nelle Dolomiti, vicino alla Tofana di Rozes che fin da subito diventò e resta la mia cima preferita. Assomiglia a una mamma e io mi sento un suo figlio. Mi ero promesso che sarei andato a ficcare il naso su per quel camino repulsivo, marcio e sempre bagnato, ma gli anni volarono e per caso, nel 2014, proposi a mio figlio maggiore Tommaso e a un suo amico di S. Cassiano in Badia di andarci insieme. Mio figlio non è un alpinista ma all’occorrenza lo diventa e Jordan, il suo amico, vuole diventare Guida Alpina: la cordata era fatta. Giunti a metà della via iniziò a diluviare e la ritirata si impose ma pochi giorni dopo io e Tommaso eravamo di nuovo lì. Avevamo però capito con che cosa avremmo avuto a che fare.

Nel frattempo avevo suggerito a mio figlio di leggersi La Guerra di Joseph, il bel libro di Enrico Camanni che narra tutta la vicenda. Dopo averlo divorato in poche ore, anche lui non vedeva l’ora di andare a vedere di persona cosa c’era lassù. Nella parte bassa ci sono resti di baracche distrutte dall’umidità e dal tempo, chiodi forgiati a mano che sono dei capolavori di fabbro e reticolati, schegge di colpi d’obice, resti di scarpe, gavette, e più in alto i consistenti ancoraggi per le scale a pioli. Ferri conficcati nella roccia in fori scavati, come dei grossi rudimentali spit, spezzoni di corde di canapa e gradini di larice. Quello che nella relazione del Berti viene definito come passaggio chiave di IV grado è uno strapiombo umido e muschioso che sarà almeno V superiore, se non di più. Premetto che per anni avevo cercato informazioni su questa via, dei ripetitori, ma niente, pareva che nessuno ci fosse stato. Invece qualche chiodo e cordino anni ’80 li abbiamo trovati, segno che la passione per questo tipo di cose ce l’abbiamo in più di due.

Dopo un ennesimo tiro non facile, molto chiodato e dalla roccia gialla, sabbiosa e ricoperta da una patina di “lepego” (in genovese si definiscono “lepegosi” gli scogli ricoperti di alghe scivolosissime) si giunge sotto uno strapiombo dall’aria insolubile. Da una grossa clessidra penzola scoraggiante un anello di corda di evidente calata. Siamo immersi in una nebbia fitta, si vede a pochi metri, mi infilo sul fondo del camino scomparendo alla vista di mio figlio che tremando dal freddo mi assicura più per dovere che per piacere. La corda scorre a fatica tra gli enormi massi che ingombrano quella porzione scomoda del pianeta e, dopo un po’ di andirivieni precari, decido, tornato in sosta da Tommaso, che su di lì non c’è passato nessuno e che quindi Gaspard e Vallepiana avevano mentito! Usciamo in vetta alla Quota Gaspard aprendo, tra gli altri, un tiro di corda sulla destra del camino di un buon sesto grado (6a/b in scala attuale, per meglio intenderci) attrezzandolo con dadi e friend.

In cima siamo come in un bicchiere di “acqua e anice” per dirla alla Paolo Conte. Non si vede una mazza e la nebbia è già diventata pioggerellina feltrosa, di quella che ti bagna anche le budella. Ci scattiamo una foto vicini al muretto di pietre a secco che doveva essere la posizione delle mitragliatrici corrispondente a una foto che avevo già visto su un libro di storia. Riconosco anche il gradino di roccia riparato dove bivaccavano gli Alpini. Roba da pazzi, ma è stato così. Questo punto si può raggiungere più facilmente anche in discesa dalla cima della Tofana di Rozes. Le date sulla conquista italiana della cima corrispondono, e questa spiegazione torna. Indoviniamo non senza errori di percorso e brevi ritirate, la via di discesa e ci imbattiamo in un femore umano sulle ghiaie che mi porto a casa insieme a qualche gradino delle scale di Vallepiana, qualche chiodo artistico che mi era rimasto in mano e altri resti bellici poco rilevanti ma che per me sono testimoni di cose passate che mi piace ricordare. Sono felice di condividere questi momenti con mio figlio e mi sembra che anche lui la pensi così.

Passo qualche notte insonne pensando che tutta questa storia è una bufala sicuramente inventata dagli alti comandi di allora a scopi propagandistici. Chiamo e poi incontro Camanni a Torino, che accetta quasi commosso in regalo i chiodi di Gaspard. In fondo la storia più bella e avvincente sul camino di Vallepiana l’ha raccontata lui, ma ora il dubbio della menzogna offusca tutto. Forse più per me che per lui. Passa un altro anno e siamo al settembre del 2015. Mio figlio vuole essere informato, ma ora abita in Patagonia e vive le notizie di casa come vicende lontane e forse giustamente assurde in casi come questo. Convinco due fidati compagni di scalate a salire nuovamente quella via. Patrizia e Marco non hanno idea di cosa li aspetti ma si fidano di me, peggio per loro! Mi chiedono che grado è quella via che gli propongo e io non so rispondere. Mi diranno dopo che non avevano mai fatto niente di più ostico e complicato, eppure qualche via anche impegnativa sulle Alpi e per il mondo l’hanno salita. Gaspard con gli scarponi chiodati doveva essere un fuoriclasse, mi dico, e credo di non sbagliarmi. Per questo mi secca da morire che sia stato un raccontaballe.

Torniamo lassù per quei tiri infidi. Il tiro chiave lo aggiro sulla destra, fuori dal camino strapiombante anche se chiodato, per una placca che devo attrezzarmi che sarà un bel 6° continuo e delicato. Salire il camino mi è bastato farlo già due volte! Arriviamo dove improvvisamente finiscono tutti i chiodi, i fittoni per le scale e le corde a brandelli. Mi infilo nuovamente nel fondo del camino tra i massi instabili. Oggi non è sereno ma la nebbia resta distante dalla parete, c’è più visibilità rispetto all’ultima volta. Mi muovo leggero perché si capisce che questi macigni sono incastrati uno sull’altro per una magica combinazione che non vorrei intaccare con il mio passaggio facendo la fine del topo. Il camino si apre a forma di campana sarà largo almeno 30 metri e strapiomba su tutti i lati in maniera esagerata. Dove mai saranno passati quei due? Scatto qualche foto e giro la testa come un periscopio scrutando ogni piega della roccia chiaramente rotta dalle frane recenti. A circa sei metri sopra di me sulla sinistra pende da uno spuntone proteso sul nulla un anello di corda di canapa con i capi sfrangiati. Una volta la parete passava di là, capisco, e si vede che il crollo ha provocato il vuoto al di sotto dello spuntone. La storia è tutta vera e questo consola forse solo me in quel momento. I miei compagni intirizziti alla sosta sono contenti di scendere.

Quando, la sera stessa, scrivo la notizia a Camanni scopro, dal tono della sua immediata risposta, che è sollevato anche lui. Enrico è uno scrittore notevole e non ci vuole molto a interpretare quello che vuole farti capire quando scrive anche una breve email. In calata, mentre aspetto i miei compagni alle soste osservo quello che c’è sulla parete e immagino il brulicare di uomini su e giù da queste rocce inospitali, i fischi delle pallottole attraversare l’aria, le bestemmie, le scale pericolanti e le esplosioni rimbombanti dai dintorni, i pennacchi di fumo, le notizie gracchianti dai telefoni campali, la puzza della lana bagnata di pioggia e sudore, i pidocchi che corrodevano il cuoio capelluto, le unghie lunghe e sporche, i pensieri rivolti a un futuro incerto e a un passato recente lasciato tra le mura di casa: “a baita” come si diceva allora. E scivolando lungo le nostre corde di nylon variopinte nella solita struggente enrosadira dalle luci basse e sature di colore, ce ne ritorniamo al nostro presente. Dopo un viaggio nell’aldilà a due passi da casa, dalla baita, appunto.

Bellissima e affascinante storia, come sempre quelle di Cominetti. Mai dubitare degli antichi! Ho messo il naso da quelle parti dopo aver letto di tutto. Ora leggerò anche il libro di Camanni

Bellissima storia di alpinismo eroico e guerra insensata. Grazie per averla condivisa, non sapevo niente di questa cima isolata e del suo orrido camino.

Bella la storia, scritta molto bene .  

Racconto molto bello e interessante, soprattutto per me Sottotenente di Fanteria Alpina e nel 1969 comandante del posto di vigilanza di Monte Elmo in valle di Sesto Pusteria quindi non lontano da quei luoghi. Mi è nuovamente venuta la voglia di andare in cima alla Tofana di Rozes, in via ferrata perché non so arrampicare ai livelli di cui si parla nell’articolo. Ma a 75 anni ci si sente ancora giovani se come me si gode di una buona salute. Certamente leggerò il libro di Camanni!

Vedi anche : LA FASE CONCLUSIVA DELLA CONQUISTA DEL CASTELLETTO 11 – 13 LUGLIO 1916. UN EPISODIO DELLA GUERRA DI MONTAGNA http://www.mymountainbooks.org/collection

Mereu, il femore ce l’ho a casa, ti interessa? Come ho anche casse di cianfrusaglie di guerra che raccolgo anche nell’orto di casa, visto che abito sulle pendici del Col di Lana…

Una domanda… Ma il femore che fine ha fatto? Sanj

Racconto veramente appassionante, complimenti ! Questa estate vorremmo salire sulla Rozes dalla Via Lipella , sicuramente questo racconto mi accompagnerà. Buona montagna !    

Tante sono le storie ed avventure da raccontare. Ci vorrebbe più gente che scrive così, senza retorica e senza autocelebrazione. Bravo Marcello. Ho ancora avuto occasione di conoscere personalmente Ugo di Vallepiana quando era Presidente Generale del CAAI e, giovane entusiasta, accompagnavo Renato Chabod a Milano alle riunioni dell’ Accademico.

bel racconto  scritto bene  e bella salita d’altri tempi che non conoscevo.

E grazie anche, naturalmente, a Enrico Camanni

Grazie Marcello, non ne sapevo nulla ed era un peccato

40 anni  indietro su una via nuova di misto,   poco sotto la  vetta su terreno ancora bello tosto  trovai dei resti di guerra. Incuriosito andai poi a vedere chi mai potesse essere stato a ficcarsi in quel posto per combattere e trovai che nel 1916  un certo Angelo Dibona (!) aveva aperto un itinerario la’ in cima  per condurre un gruppetto di ‘alpini austriaci’ ad installare un pezzo.  Noi orgogliosi del nostro tracciato  moderno in punta di picche  ci siamo chiesti per sempre da che parte fossero mai saliti con una mitragliatrice in spalla.. Bel racconto ben scritto che porta indietro i ricordi. Grazie.

Marcello sei sempre un esploratore entusiasta come e forse più di 35 anni fa, e sai raccontare ciò che fai in maniera affascinante e coinvolgente. Avevo già visto il documentario della salita degli Alpini, ma non ricordo se era specificato che l’idea iniziale era stata tua. Complimenti per essere riuscito a realizzare un’idea del genere. 

Complimenti Marcello per il racconto e anche per la salita. Avevo letto la guerra di Joseph parecchi anni fa, uno dei più bei libri scritti da Enrico. La lettura del tuo racconto ha fatto rivivere l’impresa di Gaspard e Vallepiana.

Sono stato sulla Tofana di Rozes nell’ agosto del 1980,con un amico e una guida di cui non ricordo il nome ma l’accento era altoatesino,era la mia prima scalata avevo diciassette anni,la foto della cresta sulla cima mi ha riportato indietro nel tempo ,certi momenti non si dimenticano è stato meraviglioso!

Roccia friabile e reperti storici, vi sono tutti gli ingredienti per un’avventura! Bellissimo racconto. Queste sono le vie di carattere che mi piacciono.

Bellissimo racconto. I segni della guerra sono ancora ben visibili sulle montagne intorno a Cortina, dopo più di un secolo. Sul Monte Specie ho trovato le cataste di legna da ardere abbandonate con la ritirata di Caporetto, praticamente ancora intatte…

I militari che hanno fatto il video per RAI Valle d’Aosta li conosco bene perché, incuriositi dalla storia mi hanno contattato per avere informazioni sulla via. Il documentario è bello anche se per i miei gusti un po’ troppo marziale.   L’anno scorso mi sono incontrato con Corrado Gaspard, nipote di Joseph, a cui ho dato un bel chiodo da roccia sicuramente piantato dal martello di suo nonno. La via non è sicuramente una roba plaisir ma è meno peggio di come la descriveva la sua fama sinistra. I camini oggi non sono la passione di nessuno e, nelle Dolomiti, chissà perché,  sono tutti di quarto grado anche quando sono molto piu difficili. Negli standard dolomitici classici la roccia non è neppure male. Una via consigliabile, tutto sommato.

Una pagina della nostra storia, in dissolvenza con la storia della ricerca effettuata da Marcello, ben raccontata. Bravo Marcello.

P.S.: il povero Gaspard sulla Tofana si è poi preso un fulmine che lo ha quasi ucciso e lasciato invalido per il resto della sua vita

Tranquillo Marcello, non sei certo l’unico a sentire il fascino della Tofana, della storia e di certe imprese! Qui un gran bel video di un paio di tuoi “colleghi” tuoi emuli (anche se uno ha la penna bianca, credo non ti offenderai): https://www.youtube.com/watch?v=Yl25OONX4Wk   E mi pare confermino difficoltà, stupore e crolli…anche se hanno imbroccato  meglio di te il meteo!   Credo però che tu abbia un po’ sprecato preoccupazione e notti insonni, perché adesso è sicuramente più facile raggiungere quota Gaspard dalla vetta (anche se con neve o brutto tempo…), ma in tempo di guerra probabilmente sarebbe stato un suicidio, perché perfettamente in vista dal fronteggiante Lagazuoi nord e sotto tiro delle artiglierie. Secondo le testimonianze del tempo era addirittura impossibile muoversi sulla vetta durante il giorno senza essere presi a colpi di shrapnell.

Sul Camino degli Alpini ho trovato questo documentario: https://m.youtube.com/watch?v=Yl25OONX4Wk

Nell enorme frantoio di vite umane che fu la 1° guerra con i suoi fronti russi francesi belgi e friulani il settore dolomitico  ben descritto nel racconto esce come una anomalia un terreno non più da formiche e formicai e diventa una lotta alle gravità al freddo e alla fame più dei singoli che delle grandi armate un terreno  che in molte pareti è li che aspetta chi raccolga i poveri resti dell orribile gioco e ancora lo racconti con rispetto e onore . Bellissima pagina .

Romantico? O forse culturale? storico? archeologico? In ogni caso, molto distante dalle arrampicate dei tempi moderni a testa in giú.

Grazie Marcello, anche per questo bel racconto.

Eh, ragazzi! Ogni tanto spunta il lato romantico del nostro Cominetti, alla ricerca del tempo che fu. Bravo! E ben scritto!

Commuoversi per queste storie è commuoversi per valori e uomini buttati nel cesso. In nome del progresso naturalmente.

Ora andrò obbligatoriamente a leggermi “La guerra di Joseph”. Grazie Marcello per questo racconto, di ieri e di oggi.

Complimenti per il racconto, bella scrittura, nonché per la voglia di approfondire storie così belle e non di moda. 

Alpinismo e tanto altro: racconto perfetto!

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